«La speranza si fa strada» - Susanna Tamaro
Intervista di Alessandro Zaccuri

Susanna Tamaro racconta che l’ultima domanda sulla speranza le è stata rivolta qualche giorno fa, da una lettrice incontrata per caso. «I suoi romanzi sono molto belli, mi ha detto, ma nel finale non potrebbe darci un po’ più di speranza? È da allora che ci rimugino – confessa la scrittrice –, perché a me non sembra di essere così pessimista. Al contrario, cerco di introdurre uno spiraglio di luce anche nella situazione più tenebrosa. Lo faccio da sempre e non ho certo intenzione di smettere. Però la letteratura ha una sua serietà, non può essere solo un’occasione di intrattenimento, qualcosa che fa distogliere lo sguardo dalla realtà del dolore...».
Eccola qui, l’autrice italiana più tradotta nel mondo, schiva e sicura di sé come ai tempi dell’esordio con La testa tra le nuvole. Era il 1989 e Federico Fellini, che l’aveva voluta incontrare, si meravigliò nel ritrovarsi davanti una «Gelsomina liberata», una ragazza-folletto che da allora non si è mai stancata di guardare in faccia il male di vivere, né si è vergognata di dar voce ai sentimenti. Nel 1994 il successo di Va’ dove ti porta il cuore fu un fenomeno che entusiasmò il pubblico e innervosì la critica, scatenando un “caso Tamaro” che, di titolo in titolo, dura fino ad oggi. Due i libri usciti nei mesi scorsi: i saggi di L’isola che c’è (Lindau) e il romanzo Per sempre(Giunti), in cui ancora una volta l’esperienza del dolore provoca prima la ribellione e poi lascia spazio a un’occasione di riscatto, di rinascita. Di speranza, appunto.

«Sì – conferma Susanna Tamaro – è il tema comune di tutte le mie storie. C’è qualcosa di imprevisto, che fa irruzione nella quotidianità in modo drammatico e violento, costringendo il protagonista a incamminarsi in un percorso interiore rispetto al quale, me ne rendo conto, i lettori tendono sempre più spesso a ritrarsi. Sembra che nessuno voglia più soffrire, neppure per interposta persona».

E da dove viene questa paura?
«Dall’illusione che ci siano sicurezze raggiunte una volta per tutte e quindi impossibili da mettere in discussione. La vita, invece, è un susseguirsi di orizzonti che si spostano e il dolore stesso fa parte di questa continua trasformazione, di questa novità incessante. Da qui nasce la speranza».
In che senso?
«Se vivo in modo consapevole, non posso non interrogarmi sul significato del dolore, non posso non domandarmi che cosa vuole da me, perché mi riguardi così da vicino. Si impara a sperare quando si comprende che la vita è un cammino, una strada che non si può percorrere da soli».
Però questo succede sempre più di rado.
«E per questo si cerca sicurezza nei tribunali, si sostituiscono le leggi degli uomini alla legge non scritta che ogni uomo porta dentro di sé, nonostante l’abbia dimenticata. Ma in questo modo la vita diventa un lager dal quale si cerca di evadere a colpi di carta bollata, ognuno per conto proprio. Sartre si sbagliava: gli altri sono la salvezza, non l’inferno. L’inferno è la solitudine, la pretesa di salvarsi da sé, sottraendosi al mistero che ogni incontro promette. Ha notato che cosa succede in treno?»
Me lo dica lei.
«Non si è più capaci di abbozzare una conversazione, non si vuole correre il rischio di condividere una parte di sé con un interlocutore casuale. Così, senza relazione, l’umanità muore e la speranza stessa è condannata. Quando si smette di affidarsi all’imprevisto, quando tutto dev’essere sotto controllo, non si riesce più a posare lo sguardo sull’altro. E
questo è l’inizio della disperazione».
Parliamo un po’ degli imprevisti che ha trovato lei sul suo cammino?
«Quali, in particolare?»
La conversione: lei non nasconde di essere credente, ma non viene da una famiglia religiosa.
«Tutt’altro che religiosa, direi. Eppure, da bambina, insistetti con tutte le mie forze per ricevere la Comunione. Succedeva a Trieste, grosso modo tra il 1962 e il 1963. Non ho ricordi precisi del catechismo, ma conservo un’impressione fortissima del mio incontro con l’Eucarestia. Mi rendevo conto di entrare in un’altra dimensione. Meglio ancora: capivo che un’altra dimensione esisteva, mi chiamava, era lì ad attendermi. Come se si fosse aperta una porta e io dovessi soltanto decidermi ad attraversarla».
Non è successo subito.
«No, c’è voluto del tempo, sono passata attraverso le mie tempeste, ho vissuto in pieno lo smarrimento degli anni Settanta. Ma il fatto straordinario è che quella porta non si è mai più chiusa. Ancora oggi continuo a varcarla, giorno dopo giorno, perché credere non è diverso da vivere: non si conquista la fede una volta per tutte, anche questo è un cammino che continua. Per certi aspetti, anzi, dopo la conversione ci si ritrova a essere più fragili, più esposti al dolore. Le domande si moltiplicano, diventano più radicali, si insiste nel cercare la risposta. L’elemento decisivo è che la risposta c’è, lo sappiamo anche se ancora non la conosciamo».
Lei ha scritto molto anche per i ragazzi. I bambini, inoltre, sono una presenza importante nei suoi libri.
«Sono una presenza importante nella vita, ma anche di questo ci dimentichiamo troppo spesso. Non abbiamo rispetto per l’infanzia, non la proteggiamo nella sua unicità preziosa. Penso alla noncuranza con cui i bambini sono esposti ai media, senza tener conto dell’equilibrio delicatissimo del loro sviluppo mentale. Penso a tanti giovani abbandonati alla loro insicurezza, vittime di famiglie assenti, smembrate».
Non mi dirà che sono senza speranza, vero?
«No, la speranza c’è sempre, è la bellezza della vita, non possiamo separarcene. Perfino la natura, che per tanti aspetti ci si presenta come il luogo della violenza e della sopraffazione, conosce questa opportunità. La relazione con l’altro, la percezione di essere incamminati verso una meta comune produce risultati straordinari negli animali, figurarsi negli essere umani».
A che cosa si riferisce? «Ai miei cani, per esempio. Fosse per loro, non perderebbero occasione per catturare un coniglio e cibarsene. Lo fanno senza malvagità, d’istinto. Se sono con me, però, si trattengono, capiscono che non devono farlo. Poi capita che debba assentarmi per due, tre settimane, e al mio ritorno mi accorgo che la componente ferina è tornata ad avere la meglio. Anche per questo, in fondo, la solitudine è pericolosa: perché ci condanna al peggio di noi stessi».


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