Susanna Tamaro racconta che l’ultima domanda sulla
speranza le è stata rivolta qualche giorno fa, da
una lettrice incontrata per caso. «I suoi romanzi
sono molto belli, mi ha detto, ma nel finale non potrebbe
darci un po’ più di speranza? È da allora
che ci rimugino – confessa la scrittrice –,
perché a me non sembra di essere così pessimista.
Al contrario, cerco di introdurre uno spiraglio di luce
anche nella situazione più tenebrosa. Lo faccio da
sempre e non ho certo intenzione di smettere. Però
la letteratura ha una sua serietà, non può
essere solo un’occasione di intrattenimento, qualcosa
che fa distogliere lo sguardo dalla realtà del dolore...».
Eccola qui, l’autrice italiana più tradotta
nel mondo, schiva e sicura di sé come ai tempi dell’esordio
con La testa tra le nuvole. Era
il 1989 e Federico Fellini, che l’aveva voluta incontrare,
si meravigliò nel ritrovarsi davanti una «Gelsomina
liberata», una ragazza-folletto che da allora non
si è mai stancata di guardare in faccia il male di
vivere, né si è vergognata di dar voce ai
sentimenti. Nel 1994 il successo di Va’
dove ti porta il cuore fu un fenomeno che
entusiasmò il pubblico e innervosì la critica,
scatenando un “caso Tamaro” che, di titolo in
titolo, dura fino ad oggi. Due i libri usciti nei mesi scorsi:
i saggi di L’isola che c’è
(Lindau) e il romanzo Per sempre(Giunti),
in cui ancora una volta l’esperienza del dolore provoca
prima la ribellione e poi lascia spazio a un’occasione
di riscatto, di rinascita. Di speranza, appunto.
«Sì
– conferma Susanna Tamaro – è il tema
comune di tutte le mie storie. C’è qualcosa
di imprevisto, che fa irruzione nella quotidianità
in modo drammatico e violento, costringendo il protagonista
a incamminarsi in un percorso interiore rispetto al quale,
me ne rendo conto, i lettori tendono sempre più spesso
a ritrarsi. Sembra che nessuno voglia più soffrire,
neppure per interposta persona».
E
da dove viene questa paura?
«Dall’illusione che ci siano sicurezze raggiunte
una volta per tutte e quindi impossibili da mettere in discussione.
La vita, invece, è un susseguirsi di orizzonti che
si spostano e il dolore stesso fa parte di questa continua
trasformazione, di questa novità incessante. Da qui
nasce la speranza».
In che senso?
«Se vivo in modo consapevole, non posso non interrogarmi
sul significato del dolore, non posso non domandarmi che
cosa vuole da me, perché mi riguardi così
da vicino. Si impara a sperare quando si comprende che la
vita è un cammino, una strada che non si può
percorrere da soli».
Però questo succede sempre più
di rado.
«E per questo si cerca sicurezza nei tribunali, si
sostituiscono le leggi degli uomini alla legge non scritta
che ogni uomo porta dentro di sé, nonostante l’abbia
dimenticata. Ma in questo modo la vita diventa un lager
dal quale si cerca di evadere a colpi di carta bollata,
ognuno per conto proprio. Sartre si sbagliava: gli altri
sono la salvezza, non l’inferno. L’inferno è
la solitudine, la pretesa di salvarsi da sé, sottraendosi
al mistero che ogni incontro promette. Ha notato che cosa
succede in treno?»
Me
lo dica lei.
«Non si è più capaci di abbozzare una
conversazione, non si vuole correre il rischio di condividere
una parte di sé con un interlocutore casuale. Così,
senza relazione, l’umanità muore e la speranza
stessa è condannata. Quando si smette di affidarsi
all’imprevisto, quando tutto dev’essere sotto
controllo, non si riesce più a posare lo sguardo
sull’altro. E
questo è l’inizio della disperazione».
Parliamo un po’ degli imprevisti che ha
trovato lei sul suo cammino?
«Quali, in particolare?»
La conversione: lei non nasconde di essere credente,
ma non viene da una famiglia religiosa.
«Tutt’altro che religiosa, direi. Eppure, da
bambina, insistetti con tutte le mie forze per ricevere
la Comunione. Succedeva a Trieste, grosso modo tra il 1962
e il 1963. Non ho ricordi precisi del catechismo, ma conservo
un’impressione fortissima del mio incontro con l’Eucarestia.
Mi rendevo conto di entrare in un’altra dimensione.
Meglio ancora: capivo che un’altra dimensione esisteva,
mi chiamava, era lì ad attendermi. Come se si fosse
aperta una porta e io dovessi soltanto decidermi ad attraversarla».
Non è successo subito.
«No, c’è voluto del tempo, sono passata
attraverso le mie tempeste, ho vissuto in pieno lo smarrimento
degli anni Settanta. Ma il fatto straordinario è
che quella porta non si è mai più chiusa.
Ancora oggi continuo a varcarla, giorno dopo giorno, perché
credere non è diverso da vivere: non si conquista
la fede una volta per tutte, anche questo è un cammino
che continua. Per certi aspetti, anzi, dopo la conversione
ci si ritrova a essere più fragili, più esposti
al dolore. Le domande si moltiplicano, diventano più
radicali, si insiste nel cercare la risposta. L’elemento
decisivo è che la risposta c’è, lo sappiamo
anche se ancora non la conosciamo».
Lei ha scritto molto anche per i ragazzi. I
bambini, inoltre, sono una presenza importante nei suoi
libri.
«Sono una presenza importante nella vita, ma anche
di questo ci dimentichiamo troppo spesso. Non abbiamo rispetto
per l’infanzia, non la proteggiamo nella sua unicità
preziosa. Penso alla noncuranza con cui i bambini sono esposti
ai media, senza tener conto dell’equilibrio delicatissimo
del loro sviluppo mentale. Penso a tanti giovani abbandonati
alla loro insicurezza, vittime di famiglie assenti, smembrate».
Non mi dirà che sono senza speranza,
vero?
«No, la speranza c’è sempre, è
la bellezza della vita, non possiamo separarcene. Perfino
la natura, che per tanti aspetti ci si presenta come il
luogo della violenza e della sopraffazione, conosce questa
opportunità. La relazione con l’altro, la percezione
di essere incamminati verso una meta comune produce risultati
straordinari negli animali, figurarsi negli essere umani».
A che cosa si riferisce? «Ai
miei cani, per esempio. Fosse per loro, non perderebbero
occasione per catturare un coniglio e cibarsene. Lo fanno
senza malvagità, d’istinto. Se sono con me,
però, si trattengono, capiscono che non devono farlo.
Poi capita che debba assentarmi per due, tre settimane,
e al mio ritorno mi accorgo che la componente ferina è
tornata ad avere la meglio. Anche per questo, in fondo,
la solitudine è pericolosa: perché ci condanna
al peggio di noi stessi».