Da
troppo tempo usiamo l'espressione evangelica "prendere
la propria croce” come un invito ad
accettare le disgrazie, le malattie, i lutti ed
ogni sorta di “sfighe” che nella vita
possano capitare. La frase di Gesù suonerebbe
allora piuttosto minacciosa e angosciante: ogni
evento negativo lo devi accettare perchè
è la tua croce e Dio vuole che tu la porti.
Da qui nasce l'idea che sia Dio a mandarti quelle
sofferenze, e che tu le debba accettare, magari
come punizione divina per espiare i tuoi peccati.
Ecco allora che si scivola nella rassegnazione,
nel fatalismo, nella rinuncia ad ogni forma di
lotta e resistenza di fronte al male. Ma siamo
proprio così sicuri che Gesù volesse
intendere in questo modo quell'espressione, pronunciata
tra l'altro dopo aver confidato ai discepoli l'intima
convinzione che lui stesso, perseverando nella
sua scelta di amare fino in fondo, sarebbe andato
incontro a sofferenza e morte (cf. Mc 8, 31-38)?
Credo sia importante liberarci da queste cattive
interpretazioni, che hanno portato a vivere la
fede cristiana, che è bellissima e liberante,
come una religiosità del sacrificio e doloristica
(si pensi agli strumenti di sevizia corporea che
si usavano in passato, cilici, cinture di castità
ecc.), in cui la sofferenza e la mortificazione
rappresentano un valore in sé. Poi possiamo
aggiungere un bel “beati voi poveri...”
e la frittata è fatta: ogni sorta di afflizione,
povertà, ingiustizia diventa d'incanto
una benedizione, e l'esercito degli “sfigati”
è pronto a farsi prendere a frustate dal
mondo e a goderne come fosse una beatitudine.
Il quadro è completo.
Io credo in un altro modo di leggere queste espressioni:
Dio non vuole la sofferenza, la croce, la tristezza
e la rassegnazione dell'uomo, non manda gli accidenti
o le malattie o la morte e non “prende per
sè” i morti (come si sente dire ai
funerali “Dio l'ha chiamato a sé...”),
come se non stesse aspettando altro; il Dio che
emerge dalla Bibbia e dai vangeli è il
Dio della vita e desidera che l'uomo sia felice,
cioè realizzi in pienezza la propria esistenza
umana. Dio è alleato dell'uomo (e di ogni
creatura), è dalla parte della sua felicità,
fa il tifo per lui, lotta, soffre e spera perchè
la sua vita migliori, avanzi, cresca, maturi,
fiorisca. Dio ne gode nel vedere una vita che
fiorisce (sia essa umana, animale o vegetale),
che sparge il suo profumo, che inonda ogni ambiente
di en-tusiasmo (parola che vuol dire
“c'è Dio dentro”).
La “croce” non è la malattia
o la sofferenza, ma la scelta di essere fedeli
alla Vita anche quando ti capita qualcosa che
non va, anche quando ti ammali, perdi una persona
cara, entri in una fase buia dell'esistenza. Fedeltà
e fiducia sono la “porta stretta”
del vangelo, la fatica gioiosa di chi sceglie
comunque di vivere, anche in un mondo che esalta
la castrazione e la morte, in tante forme sottili
e insinuanti. Croce è la porta stretta
del fidarsi della Vita, malgrado tutto quello
che può accadere di negativo (e che resta
negativo!), è la scelta di non lasciarsi
affossare dai pensieri di morte, di non lasciarsi
schiacciare dalla sofferenza ma di viverla con
dignità, stando in piedi perchè,
comunque vada – come disse Bonhoeffer il
giorno della sua uccisione nel campo di concentramento
di Flossenburg –, “vado verso
la vita”.
Portare la croce non significa tristezza o depressione;
il suo peso è “leggero” –
promette Gesù (cf. Mt 11,30) – e
se un giorno dovesse diventare troppo pesante,
sulla strada si può incontrare un Cireneo
di turno pronto a sostenerci. La sofferenza, la
malattia, la morte vanno combattute, perchè
noi siamo fatti per la gioia, la vita; e quando
arrivano senza averle cercate, vanno accolte come
misterioso passaggio di trasformazione per entrare
in una vita più piena, come appunto accadrà
a Gesù. Resistenza e resa. |